Spesso abbiamo un rapporto spinoso con la nostra concentrazione quando pratichiamo. E in realtà anche quando non pratichiamo!
Nella normale quotidianità può essere esperienza abbastanza comune quella di avere un’attenzione frammentata, segmentata in tutte le diverse attività che stiamo facendo, che ora segue uno stimolo (stiamo mescolando il ragù) ora un altro (è arrivata una notifica sul cellulare e corriamo a leggerla). Un’attenzione che salta vivace da un oggetto all’altro, da un fiore e all’altro, continuamente discontinua.
E quando ci sediamo a meditare ci aspettiamo forse che la nostra attenzione si sieda anche lei, mansueta come una vacca pasciuta, sul campo della nostra mente e stia ferma a osservare il respiro? Perché dovrebbe??
L’attenzione durante la pratica farà la stessa cosa che fa abitualmente durante le giornate: saltellare di qua e di là! E’ così che la concentrazione diventa un campo minato, un’impresa degna di un Ercole contemporaneo, e possiamo finire amareggiati.
La buona notizia (perché c’è sempre una buona notizia nascosta dentro un groviglio di mangrovie) è che quando succede questo, la cosa da fare è abbastanza paradossale: NON DOBBIAMO CONCENTRARCI.
Più cerchiamo di concentrarci, più aggiungiamo tensione alla nostra mente già tesa di suo; più tentiamo di cambiare la mente per farla aderire a un nostro ideale, più essa cercherà di ribellarsi, come un cagnolino indisciplinato che tira al guinzaglio.
Sviluppando la consapevolezza, un certo grado di concentrazione è sanz’altro utile e piacevole ma se la concentrazione non c’è, possiamo diventare consapevoli della sua assenza. Possiamo fare spazio nella mente alla confusione, ai pensieri salterini, agli oggetti che ci attirano in continuazione e osservare con curiosità com’è vivere questa esperienza. Com’è l’impazienza che emerge, la frustrazione, il pensiero “Forse è meglio se smetto…”. Se ci diamo questa possibilità, almeno durante la pratica, possiamo osservare in noi il meccanismo di voler indirizzare le cose in un certo modo a noi conveniente, mettendoci sempre in modalità di lotta contro le cose, e iniziamo così ad ammorbidire questa tendenza.
In questo modo, la concentrazione non è più un obbligo, una condizione essenziale per poter meditare bene, ma diventa come una soffice e morbida luce: essa racconta dettagli, rivela segreti e, quando sorge, fa gioire la mente.
La padronanza della propria mente, ribelle, capricciosa e vagabonda, è la via verso la felicità.
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Il saggio osserva continuamente i propri pensieri, che sono sottili, elusivi ed erranti.
Questa è la via verso la felicità.
Dhammapada 35-36
FEDERICA GAETA
Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica
Istruttrice interventi Mindfulness e prot. MBSR
spaziomindful@gmail.com